Cari
Giovani,
oggi
ricorre la festa di santa Elisabetta d’Ungheria, patrona del Terz’Ordine
Francescano.
Da
questa grande santa del XIII secolo noi prendiamo il nostro nome: eh sì, ci
chiamiamo ELISABETTINE da lei e non dalla nostra fondatrice, Elisabetta
Vendramini, che però al momento di pensare a una nuova fondazione religiosa
“volle costruire per Gesù una casa di TERZIARIE”… cioè noi!
Prendere
il nome è un po’ prendere anche l’identità di questa donna, amante di Dio e dei
poveri, creativa nella carità, fedele, coraggiosa, capace di essere sempre tra
la gente… per la gente.
Contempliamo
questa figura di Santa: il cuore della creatura, entrato nel cuore divino,
batte secondo la sua misura e il suo ritmo, così da poter dire con un titolo
caro alla memoria elisabettina: IL CUORE DELL’UOMO È IL CUORE DI DIO.
Ma
chi era Elisabetta d’Ungheria? Scopriamolo dal profilo biografico e spirituale
tratteggiato da Benedetto XVI durante la catechesi proposta nell’udienza
generale del 20 ottobre 2010.
Nacque nel 1207,
in Ungheria [….]. Amava il gioco, la musica e la danza;
recitava con fedeltà le sue preghiere e mostrava già particolare attenzione
verso i poveri, che aiutava con una buona parola o con un gesto affettuoso.
La sua fanciullezza felice fu bruscamente interrotta quando,
dalla lontana Turingia, giunsero dei cavalieri per portarla nella sua nuova
sede in Germania centrale. Secondo i costumi di quel tempo, infatti, suo padre
aveva stabilito che Elisabetta diventasse principessa di Turingia, sposando
Ludovico, futuro langravio. […] Nonostante il fatto che il fidanzamento fosse
stato deciso per motivi politici, tra i
due giovani nacque un amore sincero, animato dalla fede e dal desiderio di
compiere la volontà di Dio.
All’età di
18 anni, Ludovico, dopo la morte del padre, iniziò a regnare sulla Turingia.
Elisabetta divenne però oggetto di sommesse critiche, perché il suo modo di
comportarsi non corrispondeva alla vita di corte. Così anche la celebrazione
del matrimonio non fu sfarzosa e le spese per il banchetto furono in parte
devolute ai poveri.
Nella sua profonda sensibilità Elisabetta vedeva le
contraddizioni tra la fede professata e la pratica cristiana. Non sopportava i compromessi. Una
volta, entrando in chiesa nella festa dell’Assunzione, si tolse la corona, la
depose dinanzi alla croce e rimase prostrata al suolo con il viso coperto.
Quando la suocera la rimproverò per quel gesto, ella rispose: "Come posso
io, creatura miserabile, continuare ad indossare una corona di dignità terrena,
quando vedo il mio Re Gesù Cristo coronato di spine?". Come si comportava
davanti a Dio, allo stesso modo si comportava verso i sudditi. Tra i Detti delle quattro ancelle troviamo
questa testimonianza: "Non consumava cibi se prima non era sicura che
provenissero dalle proprietà e dai legittimi beni del marito. Mentre si
asteneva dai beni procurati illecitamente, si adoperava anche per dare
risarcimento a coloro che avevano subito violenza". Un vero esempio per tutti coloro che ricoprono ruoli di guida:
l’esercizio dell’autorità, ad ogni livello, dev’essere vissuto come servizio
alla giustizia e alla carità, nella costante ricerca del bene comune.
Elisabetta praticava
assiduamente le opere di misericordia: dava da bere e da mangiare a chi
bussava alla sua porta, procurava vestiti, pagava i debiti, si prendeva cura
degli infermi e seppelliva i morti. Scendendo dal suo castello, si recava
spesso con le sue ancelle nelle case dei poveri, portando pane, carne, farina e
altri alimenti. Consegnava i cibi personalmente e controllava con attenzione
gli abiti e i giacigli dei poveri. Questo comportamento fu riferito al marito,
il quale non solo non ne fu dispiaciuto, ma rispose agli accusatori: "Fin
quando non mi vende il castello, ne sono contento!". In questo contesto si
colloca il miracolo del pane trasformato in rose: mentre Elisabetta andava per
la strada con il suo grembiule pieno di pane per i poveri, incontrò il marito
che le chiese cosa stesse portando. Lei aprì il grembiule e, invece del pane,
comparvero magnifiche rose. Questo simbolo di carità è presente molte volte
nelle raffigurazioni di santa Elisabetta.
Il suo fu un
matrimonio profondamente felice: Elisabetta aiutava il coniuge ad elevare le
sue qualità umane a livello soprannaturale, ed egli, in cambio, proteggeva la
moglie nella sua generosità verso i poveri e nelle sue pratiche religiose.
Sempre più ammirato per la grande fede della sposa, Ludovico, riferendosi alla
sua attenzione verso i poveri, le disse: "Cara Elisabetta, è Cristo che
hai lavato, cibato e di cui ti sei presa cura". Una chiara testimonianza di come la fede e l’amore verso Dio e verso il
prossimo rafforzino la vita familiare e rendano ancora più profonda l’unione
matrimoniale.
La giovane coppia trovò appoggio spirituale nei Frati Minori,
che, dal 1222, si diffusero in Turingia. […]
Una dura prova fu l’addio al marito, a fine giugno del 1227
quando Ludovico IV si associò alla crociata dell’imperatore Federico II,
ricordando alla sposa che quella era una tradizione per i sovrani di Turingia.
Elisabetta rispose: "Non ti
tratterrò. Ho dato tutta me stessa a Dio ed ora devo dare anche te".
La febbre, però, decimò le truppe e Ludovico stesso cadde malato e morì ad
Otranto, prima di imbarcarsi, nel settembre 1227, all’età di ventisette anni.
Elisabetta, appresa la notizia, ne fu così addolorata che si
ritirò in solitudine, ma poi, fortificata dalla preghiera e consolata dalla
speranza di rivederlo in Cielo, ricominciò ad interessarsi degli affari del
regno. La attendeva, tuttavia, un’altra prova: suo cognato usurpò il governo
della Turingia […]. La giovane vedova, con i tre figli, fu cacciata dal
castello di Wartburg e si mise alla ricerca di un luogo dove rifugiarsi. Solo
due delle sue ancelle le rimasero vicino, la accompagnarono e affidarono i tre
bambini alle cure degli amici di Ludovico. Peregrinando per i villaggi,
Elisabetta lavorava dove veniva accolta, assisteva i malati, filava e cuciva.
Durante questo calvario sopportato con grande fede, con pazienza e dedizione a
Dio, alcuni parenti, che le erano rimasti fedeli e consideravano illegittimo il
governo del cognato, riabilitarono il suo nome.

Così Elisabetta, all’inizio del 1228, poté ricevere un reddito
appropriato per ritirarsi nel castello di famiglia a Marburgo, dove abitava
anche il suo direttore spirituale Fra’ Corrado. Fu lui a riferire al Papa
Gregorio IX il seguente fatto: "Il venerdì santo del 1228, poste le mani
sull’altare nella cappella della sua città Eisenach, dove aveva accolto i Frati
Minori, alla presenza di alcuni frati e familiari, Elisabetta rinunziò alla propria volontà e a tutte le vanità del
mondo. Ella voleva rinunziare anche a tutti i possedimenti, ma io la
dissuasi per amore dei poveri. Poco dopo costruì un ospedale, raccolse malati e
invalidi e servì alla propria mensa i più miserabili e i più derelitti.
Avendola io rimproverata su queste cose, Elisabetta rispose che dai poveri riceveva una speciale grazia ed
umiltà”.
Possiamo scorgere in quest’affermazione una certa esperienza
mistica simile a quella vissuta da san Francesco: il Poverello di Assisi
dichiarò, infatti, nel suo testamento, che, servendo i lebbrosi, quello che
prima gli era amaro fu tramutato in dolcezza dell’anima e del corpo. Elisabetta
trascorse gli ultimi tre anni nell’ospedale da lei fondato, servendo i malati,
vegliando con i moribondi. Cercava
sempre di svolgere i servizi più umili e lavori ripugnanti. Ella divenne quella
che potremmo chiamare una donna consacrata in mezzo al mondo (soror in saeculo) e formò, con altre
sue amiche, vestite in abiti grigi, una comunità religiosa. Non a caso è
patrona del Terzo Ordine Regolare di San Francesco e dell’Ordine Francescano
Secolare.
Nel novembre del 1231 fu colpita da forti febbri. Quando la
notizia della sua malattia si propagò, moltissima gente accorse a vederla. Dopo
una decina di giorni, chiese che le porte fossero chiuse, per rimanere da sola
con Dio. Nella notte del 17 novembre si addormentò dolcemente nel Signore. Le testimonianze
sulla sua santità furono tante e tali che, solo quattro anni più tardi, il Papa
Gregorio IX la proclamò Santa.
Cari
amici, facciamo nostro l’invito di Benedetto XVI che indica in santa Elisabetta
un esempio di come la fede, l'amicizia con Cristo creino il senso della
giustizia, dell'uguaglianza di tutti, dei diritti degli altri e creino l'amore,
la carità. E da questa carità nasce anche la speranza, la certezza che siamo
amati da Cristo e che l'amore di Cristo ci aspetta e così ci rende capaci di
imitare Cristo e di vedere Cristo negli altri.
Sia questa speranza ad animare anche i nostri
passi. Buon cammino! suor Ilaria